Il nostro Personal Branding è influenzato da quello degli altri. Chiunque passi almeno un paio di ore al giorno sui social e sul web (se mi state leggendo è probabile che siate tra quelli) se ne è accorto: le nostre bacheche ci propongono argomenti e persone che statisticamente sono in linea con le nostre interazioni. Ma vogliamo davvero questa “riduzione”?
Ormai è chiaro da tempo. Gli algoritmi dei social network e dei motori di ricerca si sono evoluti in un deep learning semantico così spinto, che scelgono per noi!
Chi lavora sul web lo sa e ne fa di opportunità virtù. Post formativi, informativi e di intrattenimento la fanno da padrone perché sono uno strumento di fidelizzazione fondamentale. La credibilità di una persona parte e si sviluppa con la coerenza comunicativa.
Però…C’è sempre un però. Almeno a mio modo di vedere.
Premetto dicendo che tra chi conosco direttamente, chi seguo e anche chi non conosco, tantissimi professionisti del web curano la propria immagine molto bene, sicuramente molto meglio di me. Con spontaneità e coinvolgimento.
Ce ne sono però altrettanti che mi lasciano quantomeno perplesso. Per farla breve, la costante che avverto è l’autocelebrazione indiretta.
Fare personal branding è un equilibrio di significati, stile e variabilità. E’ il concetto alla base dello storytelling, cioè del raccontare e raccontarsi attraverso storie e canali emozionali. Ogni messaggio tocca differenti corde emotive e anche lo stile si deve, di volta in volta, adeguare.
Alla base del personal branding, e dello storytelling collegato, vi è quindi la volontà di raccontarsi e l’opportunità di fare comprendere, con esempi pratici, come da una situazione statica ci sia stata un’evoluzione: un’azione che ha portato ad un cambiamento. L’attenzione del pubblico si mantiene viva attraverso un’alternanza di analogie, casi pratici e metafore (cause ed effetti che portano a lezioni).
Lo schema pathos-ethos-logos teorizzato da Aristotele, ed ampliato da Isocrate, è oggi ancor più valido. Si può disquisire sulle percentuali di rilevanza di queste tre fasi nella comunicazione. La tendenza è quella di dare almeno il 65% dello spazio al pathos (l’aneddoto che porta l’interlocutore nella dimensione dello storyteller, facendogliela rivivere), il 25%-35% al logos (analisi dei fatti) e il 10% all’ethos (la chiosa informativa finale per dare enfasi e credibilità ai propri argomenti).
Fin qui tutto bene, strategicamente e scientificamente corretto.
Mi sembra che molti non si accorgano di diventare schiavi di questo schema mentale, in realtà al nostro servizio e non viceversa. Siamo innanzitutto persone e come tali chi ci segue sui social network vuole vederci: vogliono capire chi c’è dietro una storia, comprenderne i ragionamenti e stabilire assonanze emotive.
E’ chiaro che chi interagisce lo fa perché ad un certo punto è entrato in contatto con noi, e questa relazione ha generato interesse verso ciò che comunichiamo. Ma i rapporti evolvono e lo fanno sempre più velocemente.
Se ciò che passa nel tempo è un’immagine meramente opportunistica, votata al conseguimento di qualcosa, è inevitabile che venga avvertito. Se agiamo così, allora dobbiamo essere pronti a pagarne anche dazio. Non dico che bisogna per forza sforzarsi di essere quello che non si è. Tutt’altro…La spontaneità innanzitutto!
Personalmente credo di pormi sui social media esattamente come mi pongo nella vita di tutti i giorni. Alterno la condivisione delle mie esperienze professionali con passioni, interessi e tutto ciò che mi piace, senza forzature.
Credo che il concetto di essere nella vita digitale come nella vita reale, da molti professionisti del web sottolineato, abbia come contraltare il fatto che le stesse persone che condividono questa forma mentis spesso non si comportano di conseguenza. Diventano loro malgrado dipendenti della loro bolla comunicativa, deliziati da like e condivisioni di seguaci che, per visibilità e cooperazione professionale reciproca, cliccano il tastino corrispondente. Ma è tutto rosa e fiori?
Il rischio è che gli utenti con cui si interagisce siano uno “zoccolo duro” solido, ma non realmente utile ad ampliare ad accrescere il proprio bagaglio personale emotivo. Il tutto tende a ridursi in una monotonia tematica figlia di un’evidente “deformazione professionale”.
Passatemi il paragone: sarebbe come un chirurgo plastico che, di fronte ad una bella donna, pensi solo a come potrebbe sollevarle lo zigomo o aumentare la pressione interna del décolleté. Cosa tristemente arida, non vi pare?
Per chi al giorno d’oggi fa comunicazione, fare video, scrivere articoli e promuovere iniziative commerciali è un “di cui” nella propria vita. Perché non dovrebbe esserlo anche nella propria presenza online?
Credo che chiunque apprezzi molto di più la semplicità, la spontaneità e l’imperfezione di chi gli sta davanti. Le distanze diminuiscono e i rapporti migliorano.
Che siate d’accordo o meno, voi come siete sui social?
Seguimi su Facebook e Instagram…nessun messaggio subliminale! Ma non seguirmi se ti aspetti di vedere tanti teneri gattini (solo 1, il mio Buzz!)
Pingback: 5 motivi per il boom di prenotazioni di Tesla 3 - Web e Media
Pingback: Come presentarsi su Linkedin - Web e Media